L’incidente di martedì 16 gennaio presso lo stabilimento milanese di Lamina S.p.A., in cui hanno perso la vita quattro lavoratori, rappresenta l’ennesima – tragica – occasione per ribadire la pericolosità delle lavorazioni nei c.d. “ambienti confinati”, come tali intendendosi non solo gli ambienti caratterizzati dalla loro limitatezza (es.: silos, cunicoli, cisterne), con conseguente difficoltà nel recupero del lavoratore in caso di malore, ma tutti quei luoghi che possano essere “sospetti di inquinamento” per la possibilità che in essi si sviluppino esalazioni letali.
Come noto, a seguito del ripetersi di eventi infortunistici gravissimi – con dinamiche ripetitive (lavoratori che muoiono per aiutare i propri colleghi in difficoltà) – la materia è stata regolamentata dal d.P.R. n. 177/2011, che rappresenta il parametro normativo, decisamente di alto profilo e notevole rigore, al quale le aziende che svolgano attività nei c.d. “ambienti confinati” si debbono attenere.
Non potendo, per evidenti ragioni di spazio e opportunità, qui minimamente discutere dei tanti altri problemi legati alla interpretazione e attuazione del d.P.R. n. 177/2011, occorre comprendere se le procedure di riferimento per gli “ambienti confinati” siano da considerarsi applicabili solo ai lavori che vengano affidati dall’azienda in cui si trovano tali contesti oppure se si tratta di regole obbligatorie sia nel caso in cui l’azienda svolga le lavorazioni e/o le manutenzioni nei propri ambienti confinati con proprio personale sia quando le affidi all’esterno, di solito con contratto di appalto di servizi. Ciò perché mi è capitato spesso di trovare risposte diverse a tale quesito, anche da parte di autorevoli interpreti al riguardo, circostanza che impone di fornire corrette e motivate indicazioni agli operatori della salute e sicurezza che ci leggono, onde evitare che possano sbagliare nella identificazione delle misure di tutela obbligatorie in contesti così delicati.
Ad aiutare nella risposta è, in particolare, la Relazione illustrativa ufficiale che venne, nel 2011, diffusa assieme alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del d.P.R. n. 177/2011. In essa, infatti, è dato leggere testualmente quanto segue: “ll comma 3 dell’articolo 1 puntualizza che il provvedimento si applica in talune sue parti a tutti i datori di lavoro, compresi quelli che svolgano “in proprio” (vale a dire con propri lavoratori che operino nel proprio ciclo produttivo) i lavori in parola e in altre sue parti unicamente nelle ipotesi che i lavori vengano svolti da una impresa appaltatrice o lavoratori autonomi. In tal modo, da un lato – tramite le misure di portata “generale” – si impone a tutte le realtà produttive nelle quali si svolgano lavori del tipo preso in esame il rispetto di livelli di formazione, addestramento etc., superiori a quelli oggi imposti, determinando un innalzamento dei livelli di tutela, e dall’altro, si identificano procedure di particolare rigore nel caso (particolarmente frequente, come si è potuto constatare in occasione delle recenti stragi) di affidamento dei lavori ad una impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi”. L’articolo
Quindi, anche se l’azienda utilizza o realizza manutenzione sui propri “ambienti confinati” con suoi lavoratori dovrà applicare tutte le tutele di cui all’articolo 2, comma 1, del d.P.R. n. 177/2011 e non solo di quelle – di livello per così dire “inferiore” – previste in generale dal d.lgs. n. 81/2008. Ad esempio, ai lavoratori che accedono (o possono accedere) agli “ambienti confinati” non basterà garantire il corso di formazione di cui all’articolo 37 del d.lgs. n. 81/2008, secondo i contenuti disciplinati dall’accordo in Conferenza Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, ma bisognerà far svolgere anche un corso di formazione specifico (la cui durata, peraltro, al momento non è nemmeno stata definita, come previsto dal d.P.R. n. 177/2011 dalla Conferenza Stato-Regioni) sui rischi lavorativi negli ambienti confinati; o, ancora, ai medesimi bisognerà fornire dispositivi di rilevazione di gas e/o ossigeno e dispositivi di protezione individuale specificamente progettati e realizzati per la gestione del rischio residuo negli “ambienti confinati”.
Chiaramente, se l’azienda dovesse scegliere di non far svolgere attività nei propri “ambienti confinati” se non a imprese “esterne” a queste misure di tutela indicate all’articolo 2, comma 1, citato, si dovranno aggiungere tutte le altre previste dagli articoli 2, comma 2 e 3, comma 1, del d.P.R. n. 177/2011 (ad esempio, identificazione del rappresentante del committente che operi in funzione di vigilanza dei lavori “appaltati” o, ancora, certificazione dei contratti di subappalto). Circostanza, qualora ci fossero ancora dubbi, ribadita dall’articolo 1, comma 3, del d.P.R. n. 177/2011, che dispone testualmente quanto segue: “Le disposizioni di cui agli articoli 2, comma 2, e 3, commi 1 e 2, operano unicamente in caso di affidamento da parte del datore di lavoro di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima, sempre che abbia la disponibilità giuridica, a norma dell’articolo 26, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo”.